Qui il fango è fatto dei nostri fiori, dei nostri fiori blu.
Piove di nuovo, da settimane. E tu non ci sei più. L’acqua tamburella sulla grondaia, il suono sordo e ovattato della tua assenza.
Disegno un ovale sullo specchio appannato. Ho la barba lunga e gli occhi gonfi. Ripenso a due fotografie.
Nella prima indossi una gonna a palloncino, con i tacchi alti e lo chignon, il giorno in cui tua madre si è sposata di nuovo.
Di lei ti vergognavi, per il suo fascino ingombrante e l’accento straniero. Così avevi deciso di non andarci, anche per via del figlio nero e assassino, il cui riflesso già ti si leggeva negli occhi.
Eppure l’aria era tiepida, quel pomeriggio, e il Tevere un lungo arazzo dai ricami dorati. Allora perché no, mi hai detto, in fondo non c’è niente di male. E hai ballato a piedi scalzi, sei stata felice.
La seconda è scattata un anno dopo: vado in ospedale, starò via poco.
Avevi il dono della musica e non suonavi più. Quando ti ho chiesto il perché mi hai risposto: se voglio guarire devo rinunciare a qualcosa che amo. Ho riso, perché non aveva senso, come molte delle tue boutade.
Prima di andartene hai ridipinto casa, comprato mobili, costruito un kamishibai per i tuoi bambini. A settembre, se sto bene, voglio andare in Lapponia. Proprio tu che senza il sole non potevi stare.
Ci piaceva vivere velocemente ed era una delle poche cose che avevamo in comune. Eppure, così diversi, siamo sempre andati d’accordo, probabilmente per le stesse cicatrici che portavamo dentro.
Non ti ho detto addio. I gesti d’affetto non sono mai stati il mio forte. O forse speravo che da quel letto ti saresti alzata davvero, senza più camice né parrucca, con i capelli al vento ed il tuo basso a tracolla.
Gute nacht, schatzi, e va’ lontano. Qui il fango dei nostri pianti è intriso.